L’evoluzione dei rapporti tra UE e Nordafrica
Alla luce degli ultimi avvenimenti in Nord Africa e della ripresa della crisi migratoria, abbiamo chiesto alla professoressa Leila El Houssi, docente di Storia ed Istituzioni dell’Africa nel corso di Laurea Magistrale di Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma La Sapienza, una lettura riguardante l’evoluzione dei rapporti tra UE e Nordafrica con un particolare focus sulla Tunisia.
Come si sono evoluti i rapporti tra l’Unione Europea e i Paesi del Nord Africa, in particolare con la Tunisia?
“I rapporti tra l’Unione Europea e il Nord Africa si sono sicuramente involuti, anche perché l’Unione Europea non ha avuto l’intuizione nel momento delle rivolte arabe, avvenute tra il 2010 e il 2011, di comprendere i grandi cambiamenti che stavano avvenendo in quegli anni riguardo ad una frattura epocale. Quindi, le cosiddette politiche di partenariato e quelle utopie che derivano dal Processo di Barcellona e dall’Unione portata avanti da Nicolas Sarkozy, che erano progetti utopistici che non hanno portato a nulla, non sono andate avanti rispetto a una progressione dell’Unione Europea nei confronti dei Paesi del Nord Africa. Ci sono stati alcuni accordi bilaterali tra Stati, ma non con l’Unione Europea; anche se ci sono temi narrativi che vengono portati avanti, ma poi di fatto questi Paesi, all’indomani delle rivolte, hanno avuto percorsi differenti: penso all’Egitto, che ha vissuto prima delle elezioni libere, che hanno portato avanti un personaggio come Mohamed Morsi, democraticamente eletto anche se appartenente alla Fratellanza Musulmana. Successivamente al colpo di Stato da parte di Abdel Fattah Al-Sisi, l’Egitto ha stretto accordi bilaterali con l’Italia e la Francia, ma non l’Unione Europea. Con l’esclusione di qualche boutade riguardo all’aspetto dei diritti umani, da parte dell’Unione Europea ci sono stati pochi accordi concreti. Attualmente la Libia è un teatro che ormai è quasi inesistente, essendo tornati in qualche modo al periodo pre coloniale italiano, cioè alla divisione regionale in Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, in cui gli Stati, la Francia in primis, hanno imposto determinate condizioni, ma l’Unione Europea non si è interessata a questi avvenimenti. In Tunisia è accaduta la stessa cosa: alcuni fondi sono stati dati ma niente di ingente. Quindi si deduce che l’Unione Europea come soggetto non guarda a sud, ma guarda dentro ai propri Stati: è più concentrata sulla stabilità degli Stati membri, più che guardare a Paesi che però sono fondamentali dal punto di vista economico e sociale. Lo si nota anche oggi all’indomani della guerra russa-ucraina. È importante avere una relazione con questi Paesi da un punto di vista soprattutto economico ed energetico: alla luce di quello che sta accadendo tutto ciò andrebbe gestito a livello europeo, non a livello di stati-nazione.”
Nonostante l’apertura alla democrazia e al rispetto dei diritti umani grazie alle proteste del 2011 e nonostante la scarsa affluenza elettorale nel 2019, perché la maggior parte della popolazione sembra accettare la “svolta autoritaria” di Saied?
“La situazione in Tunisia è stata particolare in quanto c’è stata una rivolta, poiché dopo 54 anni di dittatura e due presidenti, è penetrato l’islam politico all’interno di un Paese che di fatto era secolarizzato. È entrato prepotentemente ma voluto anche dal popolo, non tanto perché era legato al discorso della religiosità, quanto perché era l’unico partito che non è stato convivente con Ben Ali e con le dittature precedenti, anche se ha sempre avuto una maggioranza relativa alle lezioni. L’alternanza politica è durata circa una decina d’anni ed ha visto alcuni attori: l’islam politico e il partito laico Nidaa Tounes. La successiva convergenza tra questi due ha portato la popolazione tunisina a scegliere un personaggio che sembrava, in quella fase, la personalità più lontana da quella che era la politica partitica. È stata eletta, con una percentuale molto alta, era una figura che parla un arabo classico, questo non è secondario, spesso le persone provenienti dalle zone rurali lo comprendono poco, ma c’è una sorta di timore reverenziale nei confronti di un “’ustadh”, cioè di un “maestro”, poiché lui ha anche collaborato con l’università. La popolazione pensava che lui avrebbe portato la Tunisia fuori dalla forte crisi economica e dei diritti, traghettandola nella transizione democratica portata avanti dalla società dal 2010. Nonostante tutto, non c’è mai stata in questi anni una deriva autoritaria come c’è stata in Egitto, e questa è la fondamentale differenza tra i due Paesi. Tuttavia, ci sono state delle complessità perché Ennahda, partito di correnti che rappresenta l’islam politico e che ha sempre avuto la maggioranza relativa, voleva detenere il potere. Negli anni di Ennahda la corruzione era abbastanza forte e Saied per combatterla comincia a fare una politica autoritaria congelando il Parlamento. Questa azione sembrava a tempo definito, perché la maggioranza dei parlamentari era appartenente a questo partito, però dopo aver congelato il parlamento ci si aspettava che venissero indette delle elezioni di lì a poco, questo però non è avvenuto. Le società occidentali hanno guardato al congelamento del Parlamento come alla fine della democrazia in Tunisia, mentre il popolo tunisino lo aveva accettato, perché c’era una grande stanchezza da parte della popolazione rispetto a una situazione che sembrava non risolversi mai. A seguito delle elezioni legislative, che hanno riscontrato una bassa affluenza elettorale (circa 10-12%), i media occidentali hanno definito la situazione come una “svolta autoritaria”. Il quadro attuale è però più complesso e non si può definire con le categorie occidentali quello che è accaduto e che sta accadendo in Tunisia. Da parte del Presidente Saied c’è la volontà di costruire un Paese ma, in un certo senso, l’ingerenza che c’è sempre stata da parte dei Paesi occidentali sta stretta al Presidente. Chiaramente bisogna sempre trovare un equilibrio politico, ma il timore è quello di una deriva autoritaria forte come c’è stata nei 54 anni di dittatura. Questo momento è delicato e complesso, in cui c’è un braccio di ferro tra il Presidente Saied e il Fondo Monetario Internazionale; è un forte momento di difficoltà e l’attore più importante, ossia l’islam politico (che ha una grande rete al livello occidentale, e questo è significativo) sta promuovendo una sorta di retorica rispetto a quello che accade. La cosa importante non è tanto il discorso istituzionale, quanto il ruolo della società. La Tunisia, in tutti questi anni, si è distinta rispetto agli altri Paesi della regione per la sua società civile; infatti, è stato il primo e l’unico Paese che ha ricevuto il premio Nobel per quello che la società civile ha fatto. È un popolo che sicuramente non si farà imbavagliare di nuovo, che non ha timore di questo, anche se ci possono essere momenti di fragilità e di crisi economica. Finora dal 2010 è stato il primo Paese che ha compiuto la rivolta che da lì è divampata in tutti gli altri Paesi ed è stato l’unico Stato del Nord Africa che ha avuto un’alternanza democratica con delle elezioni libere. Inoltre, c’è stato un fiorire della società civile che ha portato nel 2014 alla redazione della Costituzione tunisina, a cui sono stati apportati alcuni cambiamenti, ma che, a differenza di altri Paesi come ad esempio l’Egitto, non ha ammesso la Shari’a. È una costituzione in cui è stato ammesso un articolo in cui si esprime che l’uomo e la donna sono uguali, anche se l’islam politico voleva introdurre il concetto di complementarietà, la popolazione tunisina si è opposta perché favorevole al concetto di uguaglianza tra uomo e donna. Io confido nella società civile come motore di sviluppo della Tunisia, piuttosto che nell’élite politica al potere.”
Il contesto attuale in Tunisia, caratterizzato dalla scarsità dei beni essenziali, aumento dei flussi migratori e necessità di finanziamenti dal FMI, potrebbe portare nuovamente i tunisini a protestare come nel 2011? A questo punto storico e da un punto di vista europeo, come pensa che potrebbe svilupparsi questa situazione? L’Unione Europea avrà la necessità di intervenire in modo maggiore rispetto al passato, anche considerando la guerra in Ucraina?
“Lo spauracchio delle rivolte in Tunisia c’è sempre stato dal 1978 e riguardo a questo mai andare in Tunisia a gennaio perché le rivolte sono sempre a gennaio.
Più che chiamarle rivolte, dovremmo chiamarle manifestazioni popolari, che sono sintomo di democrazia; infatti, quando ci sono le manifestazioni significa che esiste la democrazia, la quale mancherebbe se venissero vietate. Rispetto alla questione economica, l’Europa non ha guardato alla Tunisia, ha ignorato la transizione democratica che questo Paese ha provato faticosamente a portare avanti in tutti questi anni.
Democrazia che non può essere attuata dall’oggi al domani, soprattutto in un Paese che ha attraversato 54 anni di dittatura e che non può scoprirsi improvvisamente democratico. La stessa Italia ha ancora problemi con la defascistizzazione e stiamo parlando di difficoltà che persistono da quasi 100 anni. Chiaramente il percorso della transizione democratica prevede momenti ‘up’ e momenti ‘down’, ci sono dei momenti in cui va tutto bene ed il percorso è lineare e ci sono momenti in cui il percorso è in salita o ad ostacoli.
L’Unione Europea dovrebbe guardare con più attenzione alla Tunisia e alla sua transizione democratica poiché è un Paese fondamentale nella regione, anche da un punto di vista economico. Storicamente la democrazia non deve essere insegnata ai tunisini che la conoscono bene essendo stata il primo Paese ad aver avuto una Costituzione nell’area del Mediterraneo ed il primo Paese ad aver abolito la schiavitù.
La Tunisia è un Paese fondamentale nella regione poiché confina con Algeria e Libia, le quali hanno situazioni complesse al loro interno; sempre nella regione vi sono anche Egitto e Libano con contesti interni altrettanto complicati.
Inoltre, la Tunisia condivide con l’Africa subsahariana la questione complessa del percorso per i migranti. Tutto questo ci porta a dire che la stabilità della Tunisia nella regione Mediterranea è fondamentale e l’Unione Europea avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione a questo, ricordando sempre che geograficamente c’è un mare che ci divide ma che in realtà ci unisce.
Per questo motivo Bruxelles dovrebbe rivolgere il suo sguardo a Sud e non solo a Nord o solo al cuore dell’Europa, considerando che siamo in un mondo globale nel quale bisogna cercare di comprendere e capire la questione delle migrazioni e lavorare su questo tema, non pensando di bloccare il fenomeno della migrazione dicendo un semplice “stop”. La questione migratoria è un fenomeno che c’è sempre stato, basti guardare all’esempio italiano. Chi migra cerca una nuova speranza, anzi lascia la propria casa, la propria cultura, la propria lingua, compiendo uno sforzo enorme che comporta spendere dei soldi, salire su una barca, affrontare il mare ed arrivare in un Paese che non è il proprio.
Tutto questo mi porta ad affermare che bisogna aiutare economicamente la Tunisia, la quale ha un serio bisogno di supporto poiché se dovesse saltare la Tunisia salta il Mediterraneo, se dovesse saltare il Mediterraneo saltiamo anche noi perché ricordo che l’Italia sta al centro del Mediterraneo.”
Teresa Camporeale, Fulvio Maressa, Alice Rusconi