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Identità europea: tra unione e diversità

Attualmente si discute circa l’esistenza e il riconoscimento di un sentimento identitario comune, che spinga i cittadini non solo a sentirsi più europei, ma anche ad andare nella direzione di una maggiore integrazione, con l’intento di fortificare l’Unione. Ci siamo così interrogate sulla definizione di identità europea e su come potrebbe essere rafforzata e il professore Federico Maria Savastano, docente di governance multilivello delle politiche pubbliche – Jean Monnet, presso il Dipartimento di Scienze politiche della Sapienza Università di Roma, ha fornito le sue considerazioni in merito.

Cosa rappresenta per lei l’identità europea?

Il tema dell’identità europea include una serie interminabile di fattori storici, culturali, sociologici, politici, giuridici e addirittura economici per cui il discorso è decisamente complesso. Innanzitutto, dall’osservazione del processo di integrazione europea emerge sempre più come l’Unione si identifichi con i propri valori, quelli proclamati nell’art. 2 TUE, da cui si può desumere gran parte dell’identità dell’Europa di oggi. Quest’ultima, risiede, infatti, nei valori fondanti delle liberal-democrazie contemporanee. 
Dunque, l’identità europea può vedersi oggi nella forma di stato comune che caratterizza gli Stati dell’UE, nel loro essere democrazie liberali e sociali.
Infine, un altro aspetto fondamentale che caratterizza l’Unione in modo identitario è quello della costante dialettica tra unione e diversità, che si articola poi in una serie di dialettiche tra opposti, sulle quali si basa l’intera costruzione europea: Unione/Stati membri, unità/diversità, integrazione politica/integrazione giuridica; ordinamento costituzionale/organizzazione internazionale.

Il motto adottato nel 2000 “Uniti nella diversità” sta ad indicare un collegamento tra il pluralismo e particolarismo presente nell’UE con l’identità europea, il cui elemento unificatore è rappresentato dall’art.2 del Trattato di Lisbona. Ciò, però, non rischia di rappresentare un’espressione di valori solo di una parte della cultura europea? 

No, perché il rispetto di quei valori viene chiesto a chiunque voglia entrare a far parte dell’Unione europea. Nondimeno, l’art. 49 del Trattato di Lisbona, nel disciplinare l’ingresso di nuovi Stati, prevede che: “Ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all’articolo 2 e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell’Unione”. Pertanto, non si limita a richiedere il rispetto dei valori comuni per entrare nell’Unione, ma pretende la conformazione ad essi, anche solo per domandare di diventare membro. Il rispetto dei valori di cui all’art. 2 TUE è dunque un principio di condizionalità nell’adesione all’Unione Europea. 
Inoltre, nel momento in cui si aderisce all’Unione, quei valori si consolidano negli Stati membri, che iniziano una dialettica costante con l’ordinamento europeo, da cui scaturisce sempre il rafforzamento dei valori stessi. Certo, non è da escludere che ciò in molti contesti non sia accaduto, ma altrettanto evidenti sono i problemi che sono scaturiti da questa mancata conformazione. 
Perciò, non sono i valori ad essere espressione “solo di una parte” della cultura europea, ma è chi non li rispetta a tradire l’identità propria dell’Europa.

L’art. 2 del Trattato di Lisbona rappresenta un principio di condizionalità anche nel processo di allargamento. A tal fine è necessario condividere un pacchetto valoriale che è parte dell’identità europea e che deve essere condiviso dagli stati che ne vogliano aderire, o è solo una questione economica e sociale, con estensione di alcuni diritti ad altre aree, come nel caso della Turchia?

Innanzitutto, bisogna affermare che il “pacchetto valoriale” è il centro effettivo dell’adesione e, gli errori commessi in occasione dell’allargamento a est del 2004, sono derivati proprio dall’aver trascurato l’importanza dei valori. Ciò ha provocato conseguenze con particolare riferimento all’Ungheria, ma anche in Polonia e Romania. Tuttavia, l’Unione europea ha assunto, in seguito, un atteggiamento del tutto diverso nei confronti degli Stati candidati dei Balcani occidentali, chiarendo innanzitutto il principio per cui ciascuno Stato ha il proprio percorso e non ci sarà un’adesione necessariamente contemporanea, evitando così possibili “spinte” politiche all’ingresso di tutti i candidati. Il caos geopolitico post-invasione russa dell’Ucraina ha messo fortemente in pericolo questo nuovo approccio di Bruxelles, che però sembra aver resistito ad ogni tentazione “politica”.
Sulla Turchia la vicenda è diversa: quando è iniziato il percorso di adesione, Erdogan era stato protagonista di un’importante opera di riforme democraticamente orientate, che gli avevano permesso di aprire il dialogo con Bruxelles. Di più, Erdogan aveva addirittura cavalcato l’onda dell’europeismo per salire al potere. I problemi sono sorti quando il suo atteggiamento è cambiato, una volta consolidata la sua posizione alla guida della Turchia. Il regresso democratico in Turchia ha infatti compromesso la strada dell’adesione di Ankara all’Unione europea, che al momento può serenamente escludersi, rebus sic stantibus. Nonostante, ciò continuano i rapporti sul piano economico e i rapporti di vicinato con la Turchia. Dunque, si può affermare che l’adesione turca non sia “solo una questione economica”, ma che essa sia sospesa per evidenti ragioni legate all’allontanamento dallo stato di diritto, il quale non esclude la prosecuzione di dialoghi su altri fronti, compresi altri aspetti legati all’adesione.

Ritiene che la dimensione geografica relativa ai confini dell’Europa possa rappresentare un freno ad una visione di valori comuni?

I confini dell’Europa sono fissi e mobili allo stesso tempo. Essi non possono oltrepassare alcune barriere, ma al contempo si muovono insieme ai valori: se uno stato europeo rispetta i valori comuni, allora è dentro i confini dell’Unione. Al momento non è serio fare previsioni su quanto possano spostarsi questi confini, e peraltro il momento storico rende questa ipotesi remota, ma sono convinto che, qualora l’Unione dovesse allargarsi fino ai confini geografici tradizionali dell’Europa, non sia da escludersi a priori l’ipotesi che essa decida di varcare anche i confini geografici (ad esempio al Caucaso). 

Il deficit democratico delle istituzioni europee è conseguenza di un processo comunitario fondato solo sulla razionalità economica e non anche su un sentimento di comune appartenenza?

Il problema del deficit democratico è un falso mito. Ciò in quanto, nell’Unione europea il Parlamento europeo, eletto a suffragio universale dei cittadini e il Consiglio, composto dai ministri il cui mandato ha una legittimazione democratica a livello di Stati membri, possiedono un potere legislativo; la Commissione sempre più vincolata alla fiducia iniziale del Parlamento europeo e il Consiglio europeo, formato dai capi di Stato e di governo degli Stati membri detengono un potere esecutivo; infine, vi è un potere giudiziario terzo e indipendente, che risiede nel sistema multilivello di tutela dei diritti, che coinvolge la Corte di giustizia dell’Unione europea e il suo dialogo con le corti nazionali e con anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. 
Dunque, tra gli aspetti migliorabili, rientra in particolar modo il potere di iniziativa legislativa, che è formalmente prerogativa della sola Commissione, ma in sostanza è garantita a livello degli Stati membri, del Parlamento, e addirittura dei cittadini europei. Al di là di tali aspetti, le istituzioni europee hanno una legittimazione democratica molto solida, conferita dai cittadini europei, ora in quanto tali, ora in quanto cittadini degli Stati membri.

Ad oggi, nell’Unione Europea prevale un sentimento identitario comune o gli stati preservano gelosamente la propria identità nazionale, considerando l’identità europea un limite piuttosto che una risorsa?

Tali concetti in realtà non sono in opposizione tra loro, in quanto l’identità europea si compone delle identità nazionali dei suoi Stati membri e l’identità di ciascuno Stato membro è fortemente condizionata dal fatto di essere parte dell’Unione europea. 
Spesso i cittadini si percepiscono più “nazionali” che “europei”, ma si tratta di un aspetto anche culturale, non necessariamente negativo per il processo di integrazione. Del resto anche l’identità nazionale è cambiata moltissimo nella sua stessa natura, ad esempio la Brexit ha spinto nella direzione di un sentimento di comune appartenenza. 
Del resto, Federico Chabod individuava la formazione dell’identità europea in contrapposizione con ciò che Europa non è. La Brexit, l’invasione russa e sotto alcuni aspetti la stessa pandemia hanno avuto un impatto enorme sul senso di comune appartenenza dei cittadini europei, ma non per questo si sono sentiti meno “francesi” o meno “italiani”. 

Nelle elezioni europee del 2019 si è registrato un brusco calo partecipativo, in quanto i cittadini dei diversi Stati membri non si sentono cittadini europei e non comprendono l’importanza di recarsi alle urne. Come si potrebbe rafforzare questo sentimento?

Il calo nella partecipazione al voto è un dato diffuso e in costante aumento, non legato al sentirsi o meno cittadini europei, in quanto l’astensionismo cresce anche nelle elezioni nazionali e anche in Paesi, come l’Italia, storicamente abituata a percentuali molto alte di affluenza.
Negli ultimi si è registrata una “disaffezione dei cittadini nei confronti della politica”, dando la colpa a quest’ultima, rea di essere poco credibile, poco efficiente, poco responsabile. Effettivamente, la politica non ha fatto granché per riscattare la propria posizione, anzi ha dato d’altra parte una grossa spinta all’astensionismo.
Le colpe della politica però, sono diventate un capro espiatorio un po’ troppo facile da sacrificare. La scarsa affluenza non può giustificarsi semplicisticamente con la scarsa qualità o con l’inaffidabilità della classe politica, in quanto c’è qualcosa che non sta funzionando anche dalla parte dei cittadini ed è su di essi che bisognerebbe ragionare. Il disinteresse al voto è un fatto potenzialmente grave, che innesca lentamente una spirale che vede una progressiva diminuzione della legittimazione dei governanti da parte dei governati, minando così la stessa forma di stato in un ordinamento democratico. 
Sarebbe opportuno iniziare ad agire su queste disfunzioni con la cultura, dunque attraverso uno sforzo di sensibilizzazione culturale verso il significato della cittadinanza che parta dalle scuole e torni a conferire al momento del voto quella sacralità che gli compete, e che nel nostro Paese è sempre stata particolarmente sentita.
Lo stesso vale per il rafforzamento del sentimento europeo. Innanzitutto, ci sarebbe bisogno di una presa di coscienza collettiva sulla natura dell’Unione europea, su quanto impatta positivamente sulle vite dei cittadini e su quanto questi ultimi possano contribuire a determinare i suoi orientamenti. Tutti i cittadini in realtà, si sentono molto più europei di quanto siano disposti ad ammettere, ma spesso neanche lo sanno. L’Unione ha regalato dei diritti che ormai vengono dati per scontati, ma che permettono di vivere in un mondo che fino a 30 anni fa era fantascienza, e che fuori dai confini dell’Unione, in alcuni contesti, continua ad essere fantascienza.
Per rafforzare il sentimento europeo, dunque, più che poco serie “conferenze sul futuro”, sarebbe più utile far interiorizzare agli europei due concetti semplici, ossia che l’Europa ci dà tanto e che l’Europa è fatta dal contributo che i suoi Stati membri (e quindi i loro cittadini) decidono di dare, per cui, è nelle nostre mani.
Se questi due concetti venissero interiorizzati, si avrebbero molti meno problemi ad ammettere serenamente di sentirsi cittadini europei.

 Adriana Fasulo, Elisa Lattao

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