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La parità di genere nell’Unione Europea

La seguente intervista, concessa gentilmente dalla Professoressa Giulia Zacchia, tratta di un argomento delicato quale la parità di genere, analizzando il tema sia in ambito italiano che europeo, cercando di capirne le cause e le possibili soluzione per arrivare al raggiungimento di una società più equa sotto questo aspetto.

Lei è un’economista e ricercatrice (rtd-B) presso il Dipartimento di Scienze Statistiche dell’Università La Sapienza di Roma, fa parte del laboratorio “Minerva” su diversità e disuguaglianza di genere ed è tra le fondatrici del Working Group di Gender Economics della Young Scholars Initiative (YSI) dell’Institute of New Economic Thinking (INET). Può raccontarci di cosa si occupa e qual è il lavoro che svolge quotidianamente per combattere tale gender gap?

Il fine principale del Laboratorio Minerva è quello di contribuire alla ricerca scientifica e alla
consapevolezza sociale rendendo più visibile e diffuso il tema dell’uguaglianza di genere attraverso analisi di tipo qualitativo o quantitativo. Il suo punto di forza è la capacità di creare reti (o costellazioni) di esperte e esperti che lavorano su tematiche di genere. Quest’ultimo non inteso come una dimensione binaria (uomini vs donne) ma come costrutto sociale identitario che impone e induce stereotipi e discriminazioni. Di conseguenza, il nostro impegno quotidiano è quello di definire, con attività di ricerca, le diverse e intersezionali dimensioni che possono generare e perpetuare queste discriminazioni in molteplici ambiti della nostra realtà.
Spostandoci sull’YSI, l’idea principale è quella di creare una comunità internazionale di pensatori critici su temi economici a 360 gradi (mercato del lavoro, economia dello sviluppo, finanza). Ciò che mancava, però, era un Working Group che si occupasse di economia di genere con una prospettiva femminista. Quindi nel 2016, io e altre due mie colleghe, abbiamo fatto richiesta per crearlo e nello stesso anno è stato avviato.
L’obiettivo principale è quello di creare una rete di persone che fanno ricerca e lavorano su tematiche trasversali. C’è uno scambio di idee e una contaminazione di visioni che può essere virtuosa. Tra le attività che svolge il Working Group troviamo la realizzazione di webinar. Parliamo di una comunità internazionale, quindi è difficile e costoso incontrarsi di persona per corsi di formazione ma è importante essere presenti in grandi conferenze di settore per garantire visibilità e accessibilità ai temi di ricerca dei più giovani. Vi è, inoltre, una grande attività di mentorship al fine di favorire l’ingresso nei percorsi di carriera.

Nonostante i miglioramenti avvenuti negli ultimi decenni, le donne hanno più difficoltà nell’avanzamento della carriera. Perché? Come siamo messi a livello nazionale e a livello europeo?

Partiamo con il contesto a livello europeo; mi riferisco proprio all’indicatore sollevato nelle altre domande, ovvero l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere, che è un punto di riferimento per chi lavora sui dati e vuole quantificare la dimensione sulla differenza di genere, cuore per le misure dei dati che possono essere confrontabili tra i diversi paesi europei per vedere qual è la situazione di trend, ossia l’avanzamento o non del contesto e quindi del posizionamento dell’Europa in generale sui temi dell’equità di genere, ma anche per vedere e confrontare che cosa succede nei diversi paesi dell’Unione Europea. Partiamo dall’ultimo indicatore, EIGE (Istituto Europeo Equità di Genere), in particolare mi riferisco ad un sottodominio, ossia quello relativo al lavoro. In questo sottodominio, quello che viene considerato nelle differenze di genere è il tasso di partecipazione nel mercato del lavoro retribuito e anche la qualità del lavoro della segregazione orizzontale, ovvero la percentuale di donne sproporzionata in alcuni settori economici.
L’Italia è collocata all’ultimo posto tra i paesi membri dell’Unione Europea, ovvero ha la medaglia nera per
quanto riguarda il contesto delle differenze di genere sul mercato di lavoro. Questa posizione così negativa è dovuta principalmente alle differenze di genere nella partecipazione al mercato di lavoro retribuito, ovvero che in Italia pochissime donne lavorano sui mercati del lavoro retribuiti.
Questo lo confermano i dati ISTAT, che nel 2002 vedono un tasso di inattività, ossia chi non lavora e non cerca lavoro, che per le donne è del 43,3%, mentre per gli uomini è del 25,3%. Questo gap nei tassi di inattività è legato principalmente alle differenze di genere nella gestione e nella cura e del lavoro non retribuito.
Se vogliamo andare a vedere un altro indicatore che appunto si utilizza nel mercato di genere per definire le differenze di genere, ossia il famoso gender pay gap, si può notare che il collocamento dell’Italia rispetto al resto del mondo dipende da cosa andiamo ad analizzare. Se utilizziamo quello che viene chiamato in letteratura gender pay raw, ossia il differenziale salariale grezzo dato dalla differenza in termini percentuali del salario medio orario delle donne e degli uomini, la situazione dell’Italia non è poi così pessima rispetto al contesto europeo: le donne guadagnano il 4,7% in meno rispetto agli uomini. Rispetto al 14% della media dell’Unione Europea, non è un brutto risultato. Ma che succede se invece di questo aggregato andiamo a considerare una misura un po’ più accurato, definita in letteratura il gender overall pay gap, dove si aggiungono oltre alle differenze salariali medie anche la media delle ore lavorate dalle donne e dagli uomini ed il tasso di occupazione. Applicando questo metodo, la differenza si nota eccome: il gap sale al 43% ed è ben superiore rispetto a quello della media europea, che si attesta attorno al 36,7%.
C’è un nuovo studio dell’OCSE nel 2021 che cerca di definire, proprio per i paesi europei, quali sono le cause del gender pay gap. Ebbene, quello che emerge è che nel 60% viene spiegato dalla maternità, ovvero il fatto di avere un figlio o soprattutto due o più figli, che è altamente penalizzante per le donne. Quello che è interessante dello studio dell’OCSE è che, se il 60% [del gender pay gap] è causato dalla maternità, cosa causa l’altro 40%? È dovuto a norme sociali e stereotipi patriarcali delle nostre società. Quello che emerge di interessante è quali possono essere le forme di discriminazione; emerge una nuova forma di discriminazione, oltre a quelle classiche ovviamente degli stereotipi, una discriminazione che viene chiamata algoritmica. Visto che sempre più si utilizzano le piattaforme online di intelligenza artificiale anche per la selezione del personale, dove si inseriscono i curricula e viene estratto tramite algoritmo quelli che sono i candidati e le candidate perfette secondo l’algoritmo e l’intelligenza artificiale che possono soddisfare appieno le esigenze da parte del datore di lavoro. La presenza di dati che possono essere ad esempio non accurati, la presenza delle vecchie pratiche di assunzione che prevedevano il privilegio o, appunto, il fatto di assunzioni maggiori di uomini rispetto alle donne, tendono a replicarsi nei meccanismi algoritmici che si basano tutti su una storicità delle pratiche di assunzioni. Si pensa che l’algoritmo sia neutrale, ma non lo è, perché purtroppo si è visto come questi algoritmi tendono a replicare gli stereotipi di genere e a penalizzare le donne nell’accesso sul mercato del lavoro. Tutto questo ci spiega una parte del gender pay gap.

Quanto costa a noi italiani e più in generale all’Europa questa disparità di genere? E cosa potrebbero fare le istituzioni nazionali e sovranazionali per colmare il gap?

Rigiro la domanda guardando non i costi, ma i benefici, e il beneficio è di avere maggiore equità di genere
sui mercati. Questo perché EIGE ha fatto uno studio econometrico robustissimo andando a cercare di
quantificare, in termini di incremento del PIL pro capite e dei tassi di occupazione, la combinazione di una
riduzione dei divari di genere sui mercati del lavoro che, appunto, prevedesse un incremento delle donne, ad esempio, nell’istruzione nelle STEM, ossia Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica. Le donne scelgono sempre di meno i percorsi universitari in queste discipline, che garantiscono invece un accesso al mercato del lavoro prioritario, la piena occupabilità appena usciti dall’università e retribuzioni più alte.
Colmare questo gap significa dare maggiore accesso e facilitare le donne al mercato del lavoro.
Un’altra cosa che viene considerata in questo meccanismo e in questo modello econometrico è la riduzione dei divari salariali attraverso politiche attive sul lavoro e, appunto, un incremento delle donne sul mercato del lavoro, ossia una riattivazione delle donne nel contesto lavorativo. In tutto questo c’è anche una facilitazione della distribuzione del lavoro di cura all’interno dei nuclei familiari attraverso anche politiche di awareness e sussidi alla paternità. In questo caso, quello che ci dice EIGE, è che se abbiamo tutti questi ingredienti e si giunge ad una contrazione di questo gap nel mercato del lavoro e dell’istruzione, ci potrebbe essere a livello europeo un incremento del 10% del PIL pro capite e un incremento dei tassi di occupazione del 4% entro il 2050. Ovviamente questo vale per la media europea. Per paesi come l’Italia questi vantaggi sono maggiori in
quanto noi partiamo da una posizione, purtroppo, svantaggiata.

Professoressa, concorda con il fatto che l’Italia sia in qualche modo rimasta indietro nel processo verso il raggiungimento della parità di genere? Quali sono, a questo proposito, i passi mossi dall’Italia negli ultimi anni (come la legge n°162/2021 per la parità di genere/miglioramento occupazionale) e i cambiamenti in tale ambito alla luce del PNRR?

Sicuramente siamo indietro nella marcia, come abbiamo visto appunto anche con i dati alla mano.
La grandissima opportunità che abbiamo per ridurre il gender gap in questo periodo è il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, infatti il raggiungimento di più alti livelli di parità di genere è stato inserito come un obiettivo trasversale, per tutti gli interventi che sono finanziati da tali piani di ripresa nazionale.
È importante osservare e monitorare che cosa si sta facendo realmente e per questo vi propongo due aspetti del PNRR, che possono avere un forte impatto in ottica di parità di genere.
Il primo aspetto che vi voglio sottoporre come vaglio iniziale, perché ovviamente questi sono fondi che sono appena arrivati; quindi, per ora abbiamo solo un monitoraggio limitato alle prime attività intraprese, sono i criteri di premialità e condizionalità nelle gare per realizzare quelli che sono i progetti finanziati dal PNRR. La clausola della premialità prevede una priorità nel punteggio delle graduatorie per le aziende, le quali ovviamente partecipano alle gare per appalti pubblici, che dichiarano e promuovono, certificandolo, l’imprenditoria femminile, dunque che al loro interno presentano una forte componente di donne impiegate a diversi livelli, su diverse occupazioni.
La clausola di condizionalità, invece, prevede proprio uno sbarramento all’accesso, quindi possono
partecipare alle gare solo quelle aziende che garantiscono che una volta vinta la gara di appalto andranno a impiegare almeno il 30% di donne e di giovani per l’attuazione di tali progetti.
Quindi sulla carta queste norme hanno una grande importanza, vanno ad attivare la forza lavoro attraverso una misura d’urto cioè si obbligano delle quote di presenza.
Quello che però sta succedendo, che possiamo capire molto bene da un articolo pubblicato su inGenere.it, il 67,8% delle gare chiuse fino a questo momento non contiene il requisito di condizionalità e questo è vero soprattutto per tutte quelle aziende medio piccole.
La situazione è migliore, e questo ci fa sperare, per le gare alle quali hanno partecipato delle aziende molto più grandi e in questo caso il 50% degli appalti ha previsto entrambe le clausole.
Tutto ciò è accaduto poiché a un certo punto si è deciso che si poteva andare in deroga delle due clausole di cui sopra al fine di velocizzare le gare. Si comprende che queste percentuali sono veramente basse in relazione a un obiettivo che è prioritario; quindi, è importantissimo ancora una volta monitorare che cosa sta succedendo.
Il secondo aspetto sono i fondi destinati al potenziamento degli asili nido e di tutti i servizi educativi, i quali hanno l’obiettivo di liberare dal lavoro di cura non retribuito che grava principalmente sulle donne, attraverso dei servizi all’infanzia ed educativi che possano riattivare le donne e le madri sul mercato del lavoro. Nel rapporto Svimez, ultimamente pubblicato, viene denunciato che l’assegnazione dei fondi per costruire nuovi asilo nido e per potenziare servizi educativi, sono stati dati non guardando a una mappatura di quelle che sono le esigenze dei territori, ma sono stati allocati alle provincie che avevano già una forte offerta formativa, escludendo quelle che erano in sofferenza. Dunque se si guarda a quelle che erano effettivamente le necessità (numero di bambini e strutture disponibili) anche in questo caso, ancora un’altra volta, si è persa un’occasione. Sperando che ci sia un modo di reindirizzare tali fondi, rimane sempre fondamentale il monitoraggio dei dati e quindi la loro analisi.

Crede che in Italia sussista una componente culturale che rallenta il processo di gender equality?

Sì, assolutamente sì. E principalmente è legato al concetto di patriarcato. Il patriarcato è una parola che viene utilizzata nella letteratura proprio per descrivere una società in cui agli uomini vengono attribuiti,
costantemente, maggiori autorità e privilegi nel contesto economico e sociale.
Quello a cui stiamo lavorando con due colleghe è la definizione di un indicatore di patriarcato in Italia.
L’indice di patriarcato è stato calcolato per diversi Paesi europei. Stiamo cercando di quantificare quale sia la situazione in Italia e questo si fa guardando a dati reali, verificando effettivamente quali sono gli ambiti di privilegio degli uomini sulle donne.
Dalle prime analisi è evidente l’esistenza di una forte differenza sul territorio nazionale, dal punto di vista
regionale; ovviamente al Sud l’indice del patriarcato risulta molto maggiore rispetto al centro e al Nord.
Questi dati richiederebbero un’attenzione maggiore per quelle politiche finanziate dal PNRR che possano
andare a ridurre anche il gap tra Nord e Sud. Quello che sicuramente si può fare è una riduzione,
riqualificazione e retribuzione del lavoro di cura non retribuito e per far ciò è importante una riattivazione
degli uomini sul comparto della cura, e ovviamente in questo anche lo Stato ha il suo ruolo, il quale dovrebbe andare ad offrire dei servizi che siano accessibili e sostenibili, cosa che, purtroppo, non è ancora così.

Ilaria Loccisano, Martina Pangallozzi, Nicolò Tanco

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