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Parenti: “Riforma dei Trattati necessaria, ma rimane la questione dei tempi. Ci aspettano mesi interessanti”. L’intervista al Capo della Rappresentanza in Italia della Commissione europea

di Marco Giacomelli e Alice Guadagnoli

(foto di Giacomo Baiocchi – Twitter)

Conflitto russo-ucraino e sanzioni, protezione dei rifugiati, processo di adesione e criteri di Copenaghen, riforma dei Trattati. Sono tra i temi che abbiamo affrontato nell’intervista con Antonio Parenti, Capo della Rappresentanza in Italia della Commissione europea, per capire e approfondire insieme a lui il ruolo che l’Unione europea sta avendo in questo momento storico, tanto sul piano politico ed economico quanto su quello strategico. 

Con la guerra in Ucraina provocata dall’aggressione della Russia, la Commissione europea sta intervenendo in campi particolarmente delicati. Crede che stia riuscendo in questo modo a giocare un ruolo da protagonista? Dal suo punto di vista pensa che si stia creando una sinergia tra le istituzioni europee o c’è il rischio che la mancanza di coordinazione contribuirà a fomentare ulteriori divisioni?
La Commissione europea dall’inizio di questa crisi, ha avuto sicuramente un ruolo predominante, basti pensare alle sanzioni che sono state poste: contengono misure di tipo economico e commerciale, due settori di piena competenza della Commissione. È evidente, comunque, che negli ultimi anni la Commissione ha innegabilmente ricoperto un ruolo sempre più politico. 

Di fronte alle crisi globali che abbiamo vissuto, come la pandemia, e che stiamo vivendo con il conflitto russo-ucraino, l’azione posta in essere fino ad adesso dalla Commissione e dalle altre istituzioni europee non ha comportato difficoltà a livello istituzionale in Europa. Il problema, piuttosto, potrebbe risiedere nel modo di affrontare le problematicità nei nuovi meccanismi: questi ultimi, infatti, potrebbero richiedere un voto a maggioranza e non più il voto all’unanimità. 

Tra le misure  della Commissione, rientra anche l’accoglienza e la protezione dei rifugiati provenienti dall’Ucraina. Crede che la situazione attuale possa condurre verso una nuova linea di politica migratoria comune, anche al di fuori della crisi stessa?

A tal riguardo, sicuramente il sistema di Dublino non risponde più alle necessità dell’Unione europea. In una situazione come quella che stiamo vivendo, utilizzare come canone il sistema di Dublino avrebbe portato a delle conseguenze di certo gravi e si sarebbe rivelato persino ingiusto. In questo caso si parla di migranti che si spostano non solo in Paesi limitrofi ma, come in tutte le crisi di questo tipo, vi sono anche spostamenti all’interno del Paese stesso e verso Paesi molto più distanti. Basti pensare al numero di ucraini arrivati in Italia nell’ultimo periodo, spesso per legami familiari. A mio parere non sussiste una distinzione tra la migrazione che parte dall’Ucraina e quella che proviene da altri Paesi, in quanto chi migra per motivi legati alla guerra o per sconvolgimenti temporanei come la fame o per motivi ambientali, lo fa proprio verso Paesi limitrofi e lo fa sperando che la motivazione che spinge ad allontanarsi si risolva nel più breve tempo possibile.

Ciò non toglie che negli ultimi anni vi sia stato un importante fenomeno migratorio dal sud al nord, spesso causato da motivi che stanno divenendo endemici. Vi è una necessità a livello europeo perché siamo un continente che sta invecchiando molto, rispetto ad un forte aumento della natalità nel sud del mondo. C’è bisogno di migrazione, di regolarla e di utilizzarla come risorsa. Ed è necessario dare una risposta che non si limiti al livello nazionale, ma venga affrontata a livello europeo ed io mi auguro che si giunga presto ad una risposta di questo genere. 

E la Commissione sta lavorando su una linea di proposte…

Sono state fatte differenti proposte che spero possano convergere a livello comunitario, nonostante non sia facile; il caso dell’Ucraina, in questo senso, potrebbe rappresentare un elemento in più per spingerci a trovare queste risposte in modo definitivo. La Commissione ha fatto una serie di proposte per andare oltre Dublino, soprattutto a riguardo dei migranti che non possono essere indicati come “rifugiati”, come ad esempio i migranti economici: la questione sta nel trasformare delle irregolarità in un controllo di questi flussi regolato ed organizzato. Vi è, ad esempio, la proposta di creare una blue card come la corrispondente green card negli USA.

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ha consegnato personalmente al presidente Zelensky il questionario per ottenere lo status di Paese candidato a entrare nell’Unione europea. Come si concilia questo gesto con il momento storico e con le difficoltà di muoversi in un conflitto di così vasta portata?

Innanzitutto, occorre fare una distinzione tra il processo di adesione e la risposta che è stata data al conflitto da parte dell’Unione europea. Quest’ultima si è presentata a livello internazionale con risposta compatta, non solo attraverso le sanzioni presentate, ma anche dando una ferma e chiara posizione rispetto a quello che sta accadendo: vi è stato, infatti, un forte sostegno all’Ucraina, congiuntamente e costantemente appoggiato dagli Stati membri. Sicuramente, consentire a questo Stato di attuare un possibile processo di adesione rappresenta un passo in avanti, un avvicinamento. Bisogna ricordare comunque che si parla di un percorso che potrebbe prendere molto tempo e questo avverrebbe non per ragioni legate alla “burocrazia europea”, ma perché la possibilità di essere uno Stato membro dell’Unione richiede un allineamento con il sistema legislativo europeo e la capacità di implementare lo stesso all’interno del proprio ordinamento. Inoltre, è necessario che lo Stato interessato sia in grado di fronteggiare la concorrenza nel mercato unico, composto da Paesi tra i più sviluppati e all’avanguardia del mondo. Rispetto alle condizioni in cui versa attualmente l’Ucraina, e considerando le problematiche future che dovrà fronteggiare, vi saranno delle oggettive difficoltà sia politiche che economiche durante il processo di adesione all’Unione.

Quale potrebbe essere la risposta degli altri Paesi candidati o in cui le trattative sono in stallo da anni? L’entrata dell’Ucraina potrebbe essere un fattore di stimolo o di crisi per questi Paesi dell’Europa centro-orientale?

Credo che la crisi che si sta verificando in Ucraina ci impone di ripensare ai processi di adesione di tutti i Paesi candidati all’Unione europea in un’ottica ancora più politica. Ovviamente i Paesi che hanno già da tempo avviato un processo di adesione, dovrebbero riscontrare tempi più rapidi di integrazione al mercato europeo. Qui la questione, come affermato anche da Macron a Strasburgo (in occasione della cerimonia di chiusura della CoFoE; ndr), sta nell’iniziare a pensare a due formulazioni: una legata alla cooperazione politica e una legata all’Unione intesa come mercato, quindi più incentrata sugli aspetti economico-commerciali. Occorre trovare una contemperazione tra queste due esigenze. A mio parere si tratta semplicemente di essere realisti nell’immaginare un’autentica integrazione nel mercato concorrenziale europeo da parte di determinati Paesi.

Per quanto riguarda l’Ucraina, non si potrà certamente avere un’adesione “sulla fiducia”: occorrerà dare seguito all’integrazione con tutte le misure previste, necessarie anche per tutelare i Paesi in questione, l’Ucraina come tutti gli altri ancora in attesa, dai rischi di un’integrazione economica prematura o improvvisa.

Parliamo di energia. Come si incontrano le esigenze per l’Ue di trovare una soluzione alla  dipendenza dal gas russo e la scelta di un’energia più sostenibile? 

Sicuramente sono esigenze complementari e non contrapposte, e che inevitabilmente toccano tanto la sfera politica quanto quella economica. Ma, indipendentemente da quanto sta accadendo in Ucraina, vi è un bisogno sempre più forte di attuare questo passaggio alle rinnovabili da parte degli Stati membri e ciò, attualmente, sta avvenendo attraverso diversi progetti che prevedono obiettivi fino al 2030. La crisi che stiamo vivendo pone un problema oggettivo nell’utilizzo di diverse energie in Europa, soprattutto nella misura in cui la Russia utilizza questo meccanismo di dipendenza del proprio gas per finanziare un conflitto alle porte dell’Europa. I mezzi con cui si dovrà attuare questo scollamento prende forme sia di rimpiazzo nel breve periodo, sia di adattamento nel medio periodo, ad energie sempre più rinnovabili. Su quest’ultimo punto, proprio l’Italia potrebbe giocare un ruolo fondamentale tra i vari partner europei, sia a livello economico che politico, essendo molto più avanti di altri Paesi nel processo di adeguamento alle energie rinnovabili.

La crisi odierna ci mette davanti a molte domande, tra gli altri interrogativi anche quello sul nostro modo di stare insieme come Paesi europei. Crede che sia arrivato il momento di una nuova riforma dei Trattati? E se del caso, crede che le altre istituzioni, così come gli Stati membri, saranno pronti ad affrontarne una?

Credo che ci siano cose che si possano attuare a brevissimo termine, per avere una maggiore efficienza dell’Ue, senza che si dia luogo a una vera e propria riforma dei Trattati. Alcune materie richiedono un inserimento ex novo, altre la semplice modifica di una parte dei Trattati. Il punto fondamentale è che, in ogni caso, si pongano più ambiti d’intervento dell’Unione sotto la regola della maggioranza qualificata come metodo principe su tali tematiche. A riguardo il dibattito politico sarà certamente complesso poiché sono sicuramente diversi i Paesi che avrebbero dei problemi nell’affrontare questo aspetto di una eventuale riforma di ampio respiro, temendo soprattutto la perdita di controllo politico in alcune materie. L’Unione europea, però, dovrà presto decidere cosa fare da grande: se continuare in un’ottica nazionale che può consentire di avere qualche vantaggio, ma al prezzo di una minore sicurezza, oppure se le problematiche che ci si presenteranno nel prossimo futuro richiederanno risposte più ampie e più ferme. Io sarei più incline a pensare che questa riforma sia necessaria e che si debba cominciare a ripensare i Trattati, per come li conosciamo, per far fronte a determinate esigenze. L’Italia, credo, ricoprirà un ruolo chiave in questo senso, soprattutto se riuscirà a sfruttare appieno le occasioni che le si presenteranno grazie ai fondi ricevuti. Il problema rimane la questione dei tempi che vanno da qui al 2026, sicuramente troppo brevi per attuare una revisione dei Trattati. Credo che ci aspettino mesi davvero interessanti. 

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