Unione Europea: quale Futuro? – Intervista al Prof. Alessandro Guerra
Alessandro Guerra è attualmente docente di “Storia Moderna”, “Modernità e Rivoluzioni” e “Storia d’Europa” , presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Sapienza Università di Roma. Con questa intervista il professor Guerra ha risposto ad alcune domande relative all’Unione Europea e alle attuali problematiche ad essa connesse.
L’idea fondante dell’Europa era basata sul concetto di favorire un dialogo volto all’affermazione della democrazia tra popoli. Il dibattito odierno si concentra sulla definizione di Europa a due velocità: gli Stati del Nord creditori e quelli del Sud debitori. A cosa è dovuta la mancanza di omogeneità? Pregiudizi della classe dirigente o forse troppe intrinseche diversità che implicano interessi ed esigenze individuali e quindi non comuni?
“L’Europa ha una storia antichissima e sorprendente. L’idea di Europa, di unire i popoli europei, precede il grande dibattito sulla democrazia. Solo con la Rivoluzione francese si inizia a porre con forza l’idea di unire o federare i paesi europei in nome della democrazia più o meno radicale perché non si dava più alternativa e i due campi, il nuovo mondo rivoluzionario e il vecchio regime, la nazione e l’Europa, iniziano a pensarsi antagonisti. Napoleone Bonaparte che a modo suo prova a tener dentro il proprio impero la dimensione europea lo fa tuttavia in chiave di dominio, vuole l’Europa unita ma assoggettata dal riconoscimento del primato nazionale francese. Non a caso quando si incorona imperatore nel 1804 richiama il mito di Carlo Magno. Ebbene, proprio Carlo Magno con il suo impero definisce il prototipo di un’Europa spaccata fra il cuore pulsante dell’impero composto sull’asse franco-tedesco ma inclusivo della vasta area padana, vale a dire lo spazio produttivo e di maggior rilievo economico, e l’area mediterranea votata ai tempi lunghi dei ritmi stagionali fondati com’erano sulla monodimensionalità agricola. Una differenza su cui poi si è impiantata la Riforma ma che ora tuttavia è divenuta ingiustificabile e caricaturale, buona per le strumentalizzazioni politiche. Un’Europa che lavora e una pigra che sta al mare e aspetta, come se peraltro stare al mare fosse un crimine e impegnare il tempo nel loisir e nell’ozio fosse prettamente disdicevole.”
Lo storico francese Lucien Febvre nel suo corso tenuto al Collège de France nell’anno accademico 1944-1945 ha affermato «L’Europa si è rivelata una nozione di crisi, un rifugio, un’ultima speranza di salvezza… Ma come farla, questa Europa?». Secondo Lei, alla luce dell’incertezza dei paesi, dell’episodio della Brexit e delle spinte nazionalistiche in primis dell’Ungheria di Orbán, è stata veramente realizzata “l’Europa”?
Già Febvre, come dite bene voi, aveva intuito che la passione riversata sull’Europa aveva coinciso con una delusione. Non a caso quando l’Europa inizia a organizzare il primo percorso comunitario Febvre se ne trae in disparte; è la stessa sensazione di un altro europeista, Carlo Morandi che come lo storico francese aveva molto creduto nell’Europa. Per tutta quella generazione l’Europa era un valore. La gran parte della loro vita fino a quel momento l’avevano passata ascoltando la gran cassa della propaganda nazionalista e fascista che esaltava le radici storiche e razziali delle nazioni, il loro spazio sacro o vitale, parlava di fardello dell’uomo bianco per colonizzare il mondo e si appellavano alla guerra per ribaltare vittorie mutilate. In questo schema che per semplicità chiamo fascista si dava per compiuto uno scontro in atto fra un’Europa giovane, incarnata dalle forze dell’Asse, e quella vecchia e decadente rappresentata della Gran Bretagna e rafforzata ora dalla Russia bolscevica saldamente proiettata verso soluzioni extraeuropee. Insomma, per fuoriuscire da quella cultura di guerra e razzismo pensare l’Europa era l’unica soluzione. Ma quando l’Europa mosse i primi passi fu inevitabile la delusione. L’Europa era schiacciata nella contrapposizione dei blocchi e con la cortina di ferro che divideva quello che doveva essere lo spazio comune europeo. Ogni cessione era tradimento ideologico, significava collusione col nemico. La fantasia che aveva animato i primi passaggi venne malinconicamente meno. Per dirla con Morandi, a storici, filosofi e letterati si erano sostituiti i più pragmatici economisti e la pura tecnicalità giuridica: «si è usciti dalla sfera dell’astratto, si cammina sul solido terreno delle leggi economico-sociali, delle norme e degli istituti di diritto internazionale. Ma, in realtà, si assiste soltanto all’illusione del concreto». La sovranità degli Stati aveva ritrovato per intero la sua potenza e aveva messo nell’angolo ogni ipotesi di creare un nuovo ordine di vita del continente. L’Ungheria, ma anche la Polonia in qualche misura riprendono e esasperano queste discussioni. A mio giudizio la vicenda europea, vista nella prospettiva storica è ben rappresentata dalla sua capacità di accogliere le differenze, fuori da questo quadro non si dà Europa. E le istituzioni europee dovrebbero essere ferme nella condanna di chiunque negando quella tradizione persegue interessi propri.
Come si inquadra la firma del Trattato di cooperazione franco-tedesca di Aquisgrana (22 gennaio 2019) tra Francia e Germania nell’ambito di una comunità volta ad obiettivi e politiche comuni?
“Il contrasto franco-tedesco è fondativo dei conflitti europei allo stesso modo in cui da Carlo Magno in poi ne costituisce il cuore. Un impero che, lo ricordo, aveva al centro proprio Aquisgrana. In fondo già nel Sette-Ottocento la grande sfida fra civilisation francese e kultur tedesca ha incarnato il dilemma su cui l’Europa è divenuta un laboratorio in cui sperimentare tutte le tecniche di sopraffazione. Che abbiano trovato un accordo di cooperazione è dunque un bene e Aquisgrana con l’accordo fra Macron e Merkel è da salutare con favore. Per quelli meno giovani come me è storica la foto presa a Verdun, il 22 settembre 1984: il cancelliere tedesco Helmut Kohl mano nella mano con il presidente francese Francois Mitterrand si inchinarono davanti alle tombe dei soldati caduti, tedeschi e francesi, nella prima guerra mondiale. La lezione del passato va elaborata non tanto per generare una impossibile memoria comune ma per avere una storia accettata e condivisa, una storia plausibile perché rigorosa, una storia capace di accogliere le ragioni dell’altro. Se poi l’accordo di Aquisgrana si rivelerà favorire un binario veloce su cui gli altri paesi non possono transitare, è un accordo sbagliato. Ma io son convinto che si debba volare più alto, non incanaglirsi nella disputa nell’esame continuo di quello che è stato fatto, come è stato fatto, ma di pensare un’altra Europa.”
Spinelli, all’interno del Manifesto di Ventotene, teorizza un’Europa federata e sociale caratterizzata da un reddito sociale di base minimo esistenziale per la dignità umana affinché non si abbiano contratti di lavoro iniqui nei confronti del lavoratore. Tale proposta potrebbe essere attualmente la soluzione per il benessere sociale post-pandemico laddove la disoccupazione interessa un elevato numero di persone? Potrebbe altresì risolvere il problema dell’inclusione? Da Spinelli ad oggi ci sono stati dei tentativi di attuazione del welfare universale?
“Io son convinto che la questione del reddito universale sia una cosa dirimente, oggi. Le molte critiche riguardo la sua fattibilità spesso offrono solo uno schermo per creare confusione e non discutere. Non ci sono stati almeno in Italia, che io sappia, tentativi concreti di realizzare un welfare inclusivo e orizzontale se non nelle forme e nei modi che conosciamo e che pure quei pochi strumenti per garantire equità sociale stanno venendo progressivamente smantellati. I libri di Giuseppe Bronzini e Giuseppe Allegri e di tutto il gruppo di lavoro del Bin (Basic Income Network) testimoniano però dell’esistenza di chi, in nome di un’Europa federale e democratica, continua a raccogliere il meglio del pensiero libertario europeo tenendo accesa la speranza di un mondo, non solo l’Europa, più giusta.”
Attualmente la Cina ha superato gli USA ed è diventato primo partner commerciale con l’UE. In questo modo l’UE sembra anteporre i suoi interessi ai suoi valori e i suoi guadagni economici a breve termine all’indipendenza strategica a lungo termine. Se così fosse, sarebbe una buona strategia quella europea? Una tale scelta geopolitica potrebbe contravvenire agli obiettivi iniziali di indipendenza e di liberazione dalle logiche imperialiste?
“Non mi addentro in spiegazioni che richiederebbero maggiori competenze di quelle che possiedo. Da semplice osservatore posso dire che le sfide del mondo globale rappresentano comunque una possibilità e l’obbligo di saper osare l’inedito, di non arroccarsi su vecchi schemi ideologici. Serve un’Europa forte, organica libera dagli interessi nazionali e capace di restituire quella libertà di pensiero e pratiche che a volte è riuscita a elaborare. Quello che so, parafrasando Habermas, è che ancora adesso “abbiamo bisogno dell’Europa”. Di una coalizione che riunisca il meglio del pensiero europeo, dello spirito di tolleranza, della forza dei diritti, della suggestione di pensare mondi possibili, di riflettere le differenze, di includere senza escludere, di accogliere, di essere solidale senza respingere. Nel pieno del gorgo rivoluzionario, la grande rivoluzione del 1789, di fronte all’involuzione autoritaria indotta dal Terrore, vale a dire dalla considerazione dell’altro come pericolo e minaccia, un anomalo personaggio come Anacharsis Cloots osò pronunciare un discorso che richiamava la necessità di un ripensamento del processo rivoluzionario. Metteva in guardia Robespierre che la rivoluzione stava scivolando sul piano inclinato della paura, e che da quella situazione non sarebbe arrivato nulla di buono. Parlava non alla Francia ma all’intero genere umano, dove non esistono stranieri, classi, ricchezze inopportune, egoismi. Per riprendere Febvre che si citava prima, vorrei chiudere con una sua frase: “L’Europa è una civiltà. E niente sulla terra è più in movimento di una civiltà. Niente che viva più pericolosamente. Niente che chieda di più allo storico la facoltà di esteriorizzarsi, di uscire dal suo orizzonte limitato, di avere continuamente uno sguardo sull’universo”.